Francesco rocca: ritratto di un campione incompiuto

Il guerriero ferito

Il debutto in prima squadra a 18 anni, un grande talento fatto di potenza, velocità e intelligenza tattica. Poi, nel 1976, il crak al ginocchio sinistro. E cinque anni di tormenti, rinunce, ospedali. Fino alla resa, avvenuta nell'estate del 1980

La carriera di Bruno Conti si è compiuta interamente, e in modo trionfale. Si è compiuta anche quella di Agostino Di Bartolomei, che però è rimasta inappagata: e forse per questo si è anche conclusa, misteriosamente, la sua vita. La carriera di Francesco Rocca il guerriero, si è fermata d'improvviso, come se cade un macigno e interrompe la strada, ma lascia una strettoia. Francesco ha tentato di attraversarla. Sembrava ci fosse riuscito, poi si è ferito di nuovo, e ha desistito.
TI dolore fisico è stato più intenso della sofferenza spirituale? E'difficile crederlo, oggi. AI dolore fisico, il guerriero ha opposto il coraggio, alla sofferenza spirituale non ha potuto mettere argine: Francesco non parla volentieri della sua straordinaria e drammatica esperienza calcistica. Di quel fantastico gruppo delle Tre Fontane, è stato il più ardimentoso e più sfortunato. No, non si può dire neppure questo, adesso: perchè c'è stato l'ultimo pensiero, misterioso e fatale, di Agostino. A Francesco dedicammo qualche pagina, anni fa. Ne riportiamo alcuni brani, per ricomporre brevemente la storia e il personaggio.

Flash Back

Francesco Rocca pensa, crede di rinascere oggi, 17 aprile 1977. I ventitrè anni finora festeggiati sono stati solo un magico regalo dell'amore materno, Francesco rinasce adesso, mentre la Roma si scalda per giocare a Perugia. Arrivano, e si infrangono contro i vetri che sembrano scossi, possenti bordate di confusi sentimenti umani; sentimenti stravolti, imbarbariti dal tifo, ma gonfi di passione, di partecipazione sincera. Quindicimila romani sono venuti a vedere Francesco Rocca che torna, dopo un delicato intervento chirurgico al ginocchio sinistro e dopo che sciagurati profeti ne avevano annunciato la rme agonistica. Quei quindicimila fanno un chiasso isterico. Francesco è uno dei più singolari campioni del calcio italiano e internazionale, è un atleta irripetibile, è una forza della natura. La sua fine non c'è stata, e questo è invece un nuovo inizio. Francesco è pallido, nessuno vuole incontrare il suo sguardo. Ogni parola può essere quella giusta e quella sbagliata. <do oggi rinasco», lo ripete mormorando e non riesce a pensare ad altro. Che attesa buffa, se non avesse coloriture drammatiche. Ieri sera Francesco non riusciva a prendere sonno. «Sì, e allora hanno chiamato lo psicologo. Una persona squisita, ma che discorsi noiosi. Ci voleva ben altro per farmi dormire, non capivano che era la gioia, erano i fremiti per un destino ritrovato. Perchè dovevo desiderare che il sonno prendesse il sopravvento, rompendo l'incantesimo? Si è addormentato lui, lo psicologo. lo ho spento la luce e l'ho lasciato ai suoi abbandoni. Ho preparato ad occhi aperti il mio ritorno alla vita. Non sono stanco, dormo al massimo quattro ore alla vigilia di ogni partita. Scusa te, l'arbitro ci sta chiamandQ). E' finita, il Perugia ha vinto 3-0, ma Francesco ha giocato abbastanza bene. La sua avventura è spezzata in due momenti, uno sublime e l'altro doloroso. Brevissimo il momento sublime, tre sole stagioni. Lungo, interminabile quello doloroso. Da quel giorno a Perugia quando è rinato, alla torrida serata romana dell'agosto 1981: una sera che sembrava togliere il respiro a tutti, non solo a Francesco Rocca che aveva chiesto e ottenuto una partita d'addio, un saluto ai tifosi nell'unico modo degno: giocando, seminando il campo di avversari battuti. Erano i brasiliani del Porto Alegre, gli avversari, per niente disposti a farsi umiliare, pur negli amichevoli significati della partita. Ma sièdavvero chiuso, il momento doloroso? Oggi Francesco fa l'allenatore e dice: «o ginocchio mi fa male ancora, specie nelle giornate umide. Ma nel mio lavoro non soffro complicazioni. Con i ragazzi parlo, più che correre, perchè ho tante cose da dire; tante cose che ho imparato nei giorni che non è possibile dimenticare e che rappresentano un'esperienza soltanto mia». Rocca è alle dipendenze della Federcalcio da tre stagioni. Fu Artemio Franchi a proporgli per primo: vieni con noi. Francesco prese tempo, poi capì che la Roma non aveva programmi per lui. Ha curato per due anni la Under 15, adesso collabora con Maldini per la Under 21 e con Zoff per l'Olimpica. E' responsabile della Nazionale Militare. «Mi piace fare l'allenatore, perchè è come se niente fosse andato perduto, come se il gioco continuasse. Qualcuno non gradisce i miei metodi, giudicandoli troppo duri. lo esigo rispetto, puntualità, determinazione. In generale, però, mi sembra di raccogliere simpatia e collaborazione».

Potenza e velocità

La sua partecipazione agonistica ha sempre avuto qualcosa di feroce. Sembrava un delitto sportivo perfetto: l'annientamento dell'avversario. Un'esecuzione deliberata. «Era una sfida continua che ho sempre condotto con la mentalità di un attaccante. Sono sempre entrato in campo con il proposito di mettere ko. il mio avversario. Lo fissavo e gli dicevo: crollerai tu, per primo. Non gli davo tregua fino a quando non lo vedevo gonfio di fatica, paonazzo di impotenza consumata. Solo allora mi preoccupavo anche dell'aspetto stilistico della mia prestazione». Francesco era dunque il superman della sua generazione calcistica? «Niente affatto: di naturale avevo solo la velocità, poi ho espresso una potenza che ho acquistato giorno per giorno con un'applicazione quasi feroce. Negli allenamenti non impegnavo solo i miei muscoli, c'era anche una concentrazione mentale al limite del fanatismo. Mi concedevo qualche distrazione solo il lunedì, poi cominciava una meticolosa preparazione della partita che durava l'intera settimana, e che comprendeva uno studio approfondito delle caratteristiche dei miei avversari». Ma il suo dramma, è davvero cominciato per l'ingordigia di un premio-Nazionale? «Tutto falso, la Nazionale per me era un onore. Unico romanista tra tantijuventini, milanisti e laziali. Perchè era il momento magico della Lazio, che aveva portato in Nazionale Wilson, Martini, Re Cecconi e naturalmente Chinaglia. Dei soldi non mi importava proprio niente, mi sembravano anche troppi. Partecipavo alle spese di casa, gli altri li investivo in modi semplici e sicuri, privi di rischi. Mi rendevo conto di guadagnare poco, facevo il muso duro, il presidente mi diceva: pensa ai tifosi, e io mi scioglievo tutto; il giorno dopo firmavo».

Il ginocchio maledetto

La Roma aveva incontrato il Cesena, il 10 ottobre 1976 seconda di campionato, e aveva vinto 2-0. Francesco aveva ricevuto una brutta botta al ginocchio sinistro. Poi era andato in Lussemburgo (qualificazioni europee) con la Nazionale. La Roma gli aveva riconosciuto un gettone-premio di 500.000 lire per ogni presenza in Azzurro. Francesco andò per non perdere quel gettone? «Chi lo pensa è un vigliacco. Ne avrei avuti, di soldi da chiedere alla Roma! Andai perchè il ginocchio non mi provocava alcun disturbo, la botta sembrava assorbita. Una cosa è certa: disputai, contro avversari modestissimi, la peggior partita della mia vita: un segno premonitore?». Diritorno, allenamento alle Tre Fontane, una delle solite sedute. Uno scatto, uno schianto: il ginocchio aveva ceduto. Fu operato dal prof. Lamberto Perugia, poco dopo: era il novembre 1976. Francesco tornò in campo il 17 aprile 1977 a Perugia: quel giorno di passioni violente che abbiamo raccontato, quando Rocca mormorava: <do oggi rinasco». Ma si può rinascere una volta, per morire altre quattro volte? Quella sera stessa del 17 aprile, dopo l'emozi_nato esordio a Perugia, il ginocchio si gonfiò di nuovo. E ricominciò il dolore che non è mai più spento. Quel primo intervento chirurgico aveva aperto una serie sventurata, crudele: settembre 1977, maggio '78, maggio'79, ottobre'79: altri quattro interventi, effettuati ancora dal prof. Perugia prima, poi dal prof. Trillat a Lione. Un'altalena agghiacciante di abbandoni e di recuperate speranze, un gioco infernale di situazioni opposte, di guarigioni apparenti, simulate per non provocare anche irrimediabili cedimenti psicologici. I suoi ripristini agonistici ormai avevano il sapore di inganni. E infatti tutti hanno creduto che fosse guarito davvero, quando ha giocato 17 partite nel '78/79, e 20 partite nel'79/80. I medici credevano di essere i soli possessori della verità, che invece Francesco conosceva e sopportava senza rischio di crolli emotivi. E all'ombra cupa, gelida, di quella verità, preparava il suo addio.

Cinque anni di dolore

Cinque anni di dolore e di rinunce, di ospedali e di convalescenze. Di stampelle. Kawasaki con le stampelle! Come è riuscito a sopportare tutto questo? «Con la consapevolezza di non essere stato sfortunato, e di soffrire meno di tanti altri. In ospedale c'erano paraplegici che non avrebbero più avuto un avvenire, io l'avrei avuto. Dov'erano, gli aspetti tragici della mia sofferenza? Quando mi accorsi cije era un circolo chiuso, che il ginocchio non sarebbe più guarito, che la storia era ormai troppo lunga e rischiava di diventare penosa, allora decisi». La Roma era Brunico, precampionato 1980/81. «Mi resi conto che non credevano più in me, che mi regalavano una stanca comprensione. Allora convocai una conferenza stampa». Addio a tutti. La Roma lo volle ancora nel suo grembo, responsabile dei NAGC, cioè dell'addestramento dei giovanissimi. Poi lo allontanò, pian piano. E fu il suo unico smarrimento, il suo unico momento debole. «Lasciare la Roma dopo tredici anni, la Roma per la quale ero nato: mi sembrava impossibile. Sono un pò introverso, la solitudine mi affascina, ho sempre risolto da solo i miei problemi, nel bene e nel male. Non mi sono mai sentito perduto, ma quella volta sì. Fu terribile». Queste cose furono scritte nel 1987. Francesco Rocca ha continuato a far parte dello staff tecnico della nazionale. E'stato «vice» diAzeglio Vicini, poi èentrato nel gruppo degli assistenti di Arrigo Sacchi, che comprende ancheAncelotti e Carmignani. Francesco svolge preziosa opera di osservatore. E' rimasto a San Vito, quindi è sempre un pendolare. San Vito, un ambiente solidissimo. Nulla è cambiato: le mura le piazze, i campi, le abitudini gli animi. Non poteva certo cambiare Francesco, con quel suo carattere serio, con un senso di tristezze lontane. Non ha più parlato della sua Roma.

Tratto da La mia Roma del Corriere dello Sport

 

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